webadmin Racconti Marzo 14, 2017

Vumilia e le sue bambine

Si presenta sulla porta con la sua bambina aggrappata al seno, facendo una mezza genuflessione e un inchino. Riconosco la donna perché la vedo spesso all’ospedale quando viene alla HIV/AIDS Clinic: è Vumilia, che in kiswahili significa “colei che sopporta”.

Ha alle spalle una vita di dolore e di sofferenza: il suo primo marito morì di AIDS lasciandogli una bella bambina. In seguito si risposò con un altro uomo, il quale morì sempre di AIDS, lasciandogli un’altra bambina.

Per andare avanti, Vumilia fu costretta ad andare in moglie a un altro uomo, il quale, dopo averle causato un’ulteriore gravidanza, la scacciò.

Vumilia si ritrovò così a 34 anni con tre figlie: una di 12, una di 8 anni e una di soli 20 mesi, ma non si scoraggiò. Con la forza della disperazione ella si costruì una capanna con mattoni crudi e fango e un tetto di paglia dove ripararsi.

Vumilia non sempre aveva da mangiare per sé e per le due bambine più grandi. Alla neonata provvedeva il suo seno minuto e il latte che la donna prendeva all’ospedale da Suor Egle.

Un giorno in cui non aveva nulla da mangiare, Vumilia si sentì costretta a rubare poche pannocchie di granoturco. Fu scoperta mentre rubava e gli abitanti del suo villaggio, per punizione, la costrinsero a girare di casa in casa con le pannocchie rubate appese al collo e gridando a tutti: “mimi ni mwizi” (io sono una ladra).
Vumilia era segnata dalla malattia che aveva contratto dal primo marito. Le prime due bambine erano nate sane, ma l’ultima era sieropositiva.

Un giorno venne all’ospedale per farsi curare. Accettò di sottoporsi al test HIV. Il verdetto fu inesorabile: sieropositiva, con un CD4 molto basso. Pur non avendo garanti, il Prof. Gerold la ammise alla terapia con gli antiretrovirali. Vumilia venne così iscritta nel numero degli assistiti del programma di assistenza alimentare. Suor Egle, che la conosce bene, la segue a distanza e le procura vestiti e cibo.

Vumilia ora è felice: grazie alla terapia antiretrovirale e alle cure del Prof. Gerold sta bene e anche la bambina sieropositiva cresce bene.

Il 30 agosto 2005 di primo mattino, Vumilia bussò alla porta dell’ufficio: era stravolta, coi vestiti sporchi e anneriti dal fumo. In poche parole mi raccontò la sua ultima disavventura.

Mentre lei era a coltivare nel campo, la bambina di 8 anni, accendendo il fuoco nella capanna, ha rotto la lanterna e il cherosene in un attimo ha preso fuoco.

La bambina, spaventata, ha preso la sorellina più piccola ed è corsa fuori dalla capanna, che in pochi istanti era diventata un rogo. Dal campo vicino Vumilia era accorsa, ma tutto era già bruciato. Quella notte, la donna e le tre bambine avevano dormito sotto una pianta accanto alla capanna annerita e ancora fumante, riparandosi alla meglio dal freddo pungente dei 2000 metri delle montagne dell’Ukinga.

Nei giorni successivi Sr. Egle con due operai di Fratel Gian Franco ha trasformato i resti della capanna in una bella casetta con il tetto fatto di lamiere.

Dalla finestra dell’ufficio guardo la gente che va e viene dall’ospedale e mi domando: quante donne sono come Vumilia? Quante famiglie sono nella stessa situazione? Sono tante, troppe, così come sono tanti i bambini innocenti falcidiati dall’AIDS o i bambini che hanno perso uno o entrambi i genitori.

p. Sandro